Ero ancora turbata dal discorso di Mark Zuckerberg in cui auspicava il ritorno in azienda della “masculine energy” e della “aggression” (parole sue). Poi è arrivato Lucio Corsi. Quel suo modo “unapologetical” (non c’è ahimé una parola altrettanto efficace in italiano) di proporre una mascolinità “beta” mi è parso rinfrescante e incoraggiante. Il suo testo racconta di una opposizione poetica ma ferma alla figura del “maschio alfa”, alla spinta a competere e a primeggiare anche a costo di schiacciare l’altro e per certi versi (tornerò su questo punto) noi stessi. E parlo di mascolinità non riferendomi necessariamente al genere maschile, ma a quella che nella psicologia e nella cultura rappresenta in senso lato “l’istanza del maschile”.
Ho trovato incoraggiante anche il successo, di critica ma soprattutto di pubblico che la canzone e il personaggio stanno riscuotendo. Credo che in questa epoca per molti versi obbediente, dove la critica sociale non ha ancora trovato modi costruttivi e riformativi di canalizzarsi, e ancora sgorga in maniera scomposta nelle polarizzazioni del dibattito pubblico e della strumentalizzazione politica, si stiano moltiplicando segnali di “quiet rebellion” come questo. L’adozione a furor di popolo di un Lucio Corsi è quantomeno una presa di distanze interiore dai modelli che l’ideologia dominante della nostra epoca rappresenta e impone.
Non è un caso che questa “quiet rebellion” trovi una sua espressione culturale nella figura di Lucio Corsi: un improbabile ibrido (lo dico come un complimento) tra una rockstar e un cartone animato, si pone di fronte allo sguardo dell’Altro con una originalità che non è frutto di pose, con una gentilezza che non implica alcun senso di soggezione, con un’inattualità che non genera alcun effetto di ridicolo. Una ribellione che è radicale perché è la semplice espressione della sua verità di uomo. La mitezza (tornerò su questa parola chiave) di un Lucio Corsi corrisponde alla volontà serena, pura eppure granitica di chi ha come proprio imperativo nient’altro che la fedeltà a se stesso e ai propri valori, in un contesto in cui invece tutti noi smaniamo per “diventare”.
Il caso ha voluto che proprio in questi giorni stessi leggendo l’ultimo libro-pamphlet del filosofo Byung-Chul-Han “Contro la società dell’angoscia”, che sarebbe poi la nostra, dominata da (cito le sue parole) un “ripiegamento narcististico” che “isola le persone rendendole imprenditrici di loro stesse” producendo “solitudine e angoscia”. Sostiene Byung-Chul-Han, ma potrebbe sottoscriverlo anche Lucio Corsi: “Noi ottimizziamo noi stessi, sfruttiamo noi stessi consumandoci fino alla morte nell’illusione di realizzarci [...]. L’autocreazione è una forma di autosfruttamento al servizio dell’incremento della produttività”.
In questa corsa al “diventare”, ognuno, scrive Byung-Chul-Han/Corsi, è “responsabile solo della propria felicità”, come se essa stessa fosse una competizione e il banco di prova della propria riuscita esistenziale. Un “culto della positività” che “isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia perché nessuno si interessa più alla sofferenza degli altri”.
Ecco perché ho (abbiamo) avvertito un sollievo di fronte alla storia che ci racconta “Volevo essere un duro”: ci è stata proposta la possibilità della fallibilità, ci è stato detto che possiamo darci il permesso di essere e dichiararci “normali”. Quando la sirena dell’ego tace, si torna a respirare e a connetterci con l’Altro riconoscendolo come simile, uscendo dall’isolamento e riaprendo un canale di solidarietà.
Non solo un senso di liberazione e di benessere ma (sostiene Byung-Chul-Han) qualcosa che apre un orizzonte di speranza e di rinnovamento, finalmente fuori da quella che definisce la “strettoia” dell’angoscia. Non è un caso che usi proprio la parola “mitezza” per definire la postura che apre a questo orizzonte. Ecco il potenziale generativo della quiet (per ora?) rebellion.
Credo che come marketer dovremmo prendere molto seriamente questi segnali. Una rivendicazione di autenticità finalmente non ego-riferita ma aperta agli altri, uno specchiarsi non in noi stessi ma nell’Altro e nella fallibile normalità che ci accomuna. Le implicazioni per la comunicazione e la strategia di marca sono potenti.
La mitezza è rivoluzionaria, e può esserlo anche per i brand. Può offrire un racconto nuovo non solo dell’identità personale, ma del nostro essere noi stessi in mezzo agli altri. Può fornire il colore emotivo per dare rappresentazione a un mondo di umana connessione in un’epoca di conflitti e polarizzazioni.
Ho trovato incoraggiante anche il successo, di critica ma soprattutto di pubblico che la canzone e il personaggio stanno riscuotendo. Credo che in questa epoca per molti versi obbediente, dove la critica sociale non ha ancora trovato modi costruttivi e riformativi di canalizzarsi, e ancora sgorga in maniera scomposta nelle polarizzazioni del dibattito pubblico e della strumentalizzazione politica, si stiano moltiplicando segnali di “quiet rebellion” come questo. L’adozione a furor di popolo di un Lucio Corsi è quantomeno una presa di distanze interiore dai modelli che l’ideologia dominante della nostra epoca rappresenta e impone.
Non è un caso che questa “quiet rebellion” trovi una sua espressione culturale nella figura di Lucio Corsi: un improbabile ibrido (lo dico come un complimento) tra una rockstar e un cartone animato, si pone di fronte allo sguardo dell’Altro con una originalità che non è frutto di pose, con una gentilezza che non implica alcun senso di soggezione, con un’inattualità che non genera alcun effetto di ridicolo. Una ribellione che è radicale perché è la semplice espressione della sua verità di uomo. La mitezza (tornerò su questa parola chiave) di un Lucio Corsi corrisponde alla volontà serena, pura eppure granitica di chi ha come proprio imperativo nient’altro che la fedeltà a se stesso e ai propri valori, in un contesto in cui invece tutti noi smaniamo per “diventare”.
Il caso ha voluto che proprio in questi giorni stessi leggendo l’ultimo libro-pamphlet del filosofo Byung-Chul-Han “Contro la società dell’angoscia”, che sarebbe poi la nostra, dominata da (cito le sue parole) un “ripiegamento narcististico” che “isola le persone rendendole imprenditrici di loro stesse” producendo “solitudine e angoscia”. Sostiene Byung-Chul-Han, ma potrebbe sottoscriverlo anche Lucio Corsi: “Noi ottimizziamo noi stessi, sfruttiamo noi stessi consumandoci fino alla morte nell’illusione di realizzarci [...]. L’autocreazione è una forma di autosfruttamento al servizio dell’incremento della produttività”.
In questa corsa al “diventare”, ognuno, scrive Byung-Chul-Han/Corsi, è “responsabile solo della propria felicità”, come se essa stessa fosse una competizione e il banco di prova della propria riuscita esistenziale. Un “culto della positività” che “isola le persone, le rende egoiste e distrugge l’empatia perché nessuno si interessa più alla sofferenza degli altri”.
Ecco perché ho (abbiamo) avvertito un sollievo di fronte alla storia che ci racconta “Volevo essere un duro”: ci è stata proposta la possibilità della fallibilità, ci è stato detto che possiamo darci il permesso di essere e dichiararci “normali”. Quando la sirena dell’ego tace, si torna a respirare e a connetterci con l’Altro riconoscendolo come simile, uscendo dall’isolamento e riaprendo un canale di solidarietà.
Non solo un senso di liberazione e di benessere ma (sostiene Byung-Chul-Han) qualcosa che apre un orizzonte di speranza e di rinnovamento, finalmente fuori da quella che definisce la “strettoia” dell’angoscia. Non è un caso che usi proprio la parola “mitezza” per definire la postura che apre a questo orizzonte. Ecco il potenziale generativo della quiet (per ora?) rebellion.
Credo che come marketer dovremmo prendere molto seriamente questi segnali. Una rivendicazione di autenticità finalmente non ego-riferita ma aperta agli altri, uno specchiarsi non in noi stessi ma nell’Altro e nella fallibile normalità che ci accomuna. Le implicazioni per la comunicazione e la strategia di marca sono potenti.
La mitezza è rivoluzionaria, e può esserlo anche per i brand. Può offrire un racconto nuovo non solo dell’identità personale, ma del nostro essere noi stessi in mezzo agli altri. Può fornire il colore emotivo per dare rappresentazione a un mondo di umana connessione in un’epoca di conflitti e polarizzazioni.